di Selena Tomei (PhD), Formatrice AIF e Orientatrice Asnor, Founder SOS Skills
Il mondo del lavoro cambia molto velocemente: sembra che già nel 2022, il 27% dei lavoratori sarà impiegato in mansioni che ancora non esistono.
Alcune competenze tecniche diventano obsolete nell’arco di due-cinque anni, mentre nascono nuove professionalità che in breve tempo diventano specialistiche e richieste in modo capillare.
L’attuale contesto economico, sempre più complesso, fluido e competitivo vede le aziende combattere strenuamente per non soccombere: ciò che le contraddistingue maggiormente è la flessibilità, flessibilità che viene richiesta tanto alle imprese quanto, soprattutto, ai lavoratori.
Soprattutto questi ultimi sono chiamati a rispondere a frequenti richieste di cambiamento, non solo di mansioni ma spesso e volentieri anche di azienda e professionalità.
Fino a qualche anno fa, lo sviluppo di carriera prevedeva una crescita verticale piuttosto lenta all’interno di una unica azienda, ma abbastanza lineare; mentre gli spostamenti orizzontali erano molto limitati se non addirittura assenti.
Oggi la situazione è radicalmente cambiata: occorre ripensare il concetto di posto fisso, attualizzarlo e ridefinirlo sulla base dei nuovi standard e i nuovi criteri che regolano il mercato.
Si sta vivendo una vera e propria crisi lavorativa, intesa come cambiamento, accanto ad una altrettanto radicale crisi delle competenze: le competenze tecniche e una forte motivazione, infatti, non bastano più a garantire una soddisfacente crescita professionale e vengono sempre più considerate un prerequisito dalle aziende che sono sempre più competitive e sempre più esigenti nei confronti dei lavoratori e alla ricerca di competenze che spesso e volentieri non sono disponibili sul mercato.
È il problema conosciuto come skills mismatch, ovvero il disallineamento tra le competenze richieste dal mondo del lavoro e quelle acquisite attraverso i percorsi formativi tradizionali e dunque disponibili sul mercato, che sembra non affliggere esclusivamente il nostro paese, ma rappresenta un problema di portata pressoché globale.
A sottolinearlo è il report Fixing the Global Skills Mismatch, realizzato dal Boston Consulting Group e pubblicato a gennaio 2020, che evidenzia come la mancanza di lavoratori adeguatamente formati per i ruoli professionali del mondo del lavoro attuale incida in maniera assai significativa sulla dinamiche di crescita, gravando come una tassa del 6% sull’economia globale, pari a circa 5 miliardi di dollari.
Nel report di bcg è interessante notare che “i datori di lavoro non riescono a trovare personale con le competenze necessarie per un determinato settore o in un determinato luogo. Per questo finiscono con l’assumere persone troppo o troppo poco qualificate: entrambe soluzioni inefficienti, che bloccano le persone e le aziende nella cosiddetta “qualification trap”.
In sostanza quando un’azienda non trova il candidato ideale con le competenze richieste è costretta ad assumere, alla fine, persone che non hanno queste competenze. Chi cerca lavoro, invece, accetta qualsiasi mansione pur di avere uno stipendio e molto spesso anche inferiore alle proprie aspettative.
Questo è fenomeno è denominato lo skills mismatch.
Un concetto “molto meno ovvio del semplice ‘skills gap’, poiché crea l’illusione di un mercato del lavoro funzionante, che porta stabilità economica e sociale. Ma in realtà il prezzo da pagare è pesante”, sottolinea lo studio.
Lo skills mismatch si traduce infatti in una perdita di produttività. “I lavoratori poco qualificati sono meno produttivi, e costano di più al datore di lavoro, che deve investire in corsi di formazione in corsa. E anche mantenere lavoratori molto qualificati in ruoli non adatti è controproducente, perché chiederanno sempre aumenti di stipendio e non potranno esprimere tutto il loro potenziale”.
Se da un lato, quindi, le aziende cercano innovatori ovvero persone capaci di apportare valore, dall’altro i tradizionali percorsi di formazione sembrano non riuscire a tenere il passo delle grandi trasformazioni che stanno investendo soprattutto l’ambito economico-industriale: questa è senza dubbio la nuova sfida da affrontare, ovvero creare un sistema formativo in grado di tenere costantemente aggiornate le competenze richieste dal mercato e che si adegui alle nuove esigenze dell’industria 4.0.
Non solo quindi percorsi formativi tradizionali, incentrati sull’acquisizione di competenze tecniche ma anche e soprattutto percorsi formativi “trasversali” finalizzati all’acquisizione e allo sviluppo di quelle soft skills di cui il mercato ha ardentemente bisogno.