Negli ultimi anni stiamo assistendo alla crescita del fenomeno della moda sostenibile.
Tra i vari motivi alla base di questo trend positivo, troviamo sicuramente una maggiore consapevolezza da parte delle nuove generazioni. Nonostante i dati siano incoraggianti, il problema dell’inquinamento tessile rimane perlopiù sconosciuto.
I colpevoli purtroppo, sono da ricercare su più fronti: da una parte ci sono i consumatori poco desiderosi di informarsi sull’impatto ambientale dei beni di consumo che acquistano, mentre dall’altra troviamo i produttori totalmente disinteressati ad introdurre pratiche sostenibili nelle varie tappe della filiera.
Il tutto condito da una mancanza di sensibilizzazione da parte delle istituzioni, che però stanno piano piano cercando di invertire la rotta.
I primi e malati germogli dell’inquinamento tessile
Per comprendere meglio l’entità del problema dell’inquinamento tessile, occorre fare un passo indietro volgendo lo sguardo al secolo scorso.
Il secolo scorso
L’inquinamento tessile affonda le sue radici nel XX secolo, con l’introduzione di nuovi materiali sintetici, come il nylon, il poliestere e l’acrilico, derivati dal petrolio.
Questi materiali avevano il vantaggio di essere più resistenti, più economici e più versatili dei materiali naturali, come il cotone, la lana e la seta, ma anche lo svantaggio di essere più inquinanti, sia nella fase di produzione che nella fase di consumo e di smaltimento.
Infatti, i materiali sintetici richiedevano più energia e più sostanze chimiche per essere prodotti, e rilasciavano più gas serra e più microfibre plastiche nell’ambiente, contribuendo al riscaldamento globale e all’inquinamento marino.
Come se non bastasse, i materiali sintetici erano difficili da riciclare e da biodegradare, tendendo quindi ad accumularsi nei rifiuti.
Un presente preoccupante
L’inquinamento tessile si è poi accentuato nel XXI secolo, con lo sviluppo del fenomeno ormai noto a tutti come “fast fashion”, ovvero un modello di produzione e di consumo basato sulla velocità, sulla quantità e sulla bassa qualità dei prodotti tessili.
Il modello fast fashion è reso possibile oggi prevalentemente attraverso la possibilità di localizzare la manodopera in paesi in via di sviluppo, privi o quasi di regolamentazione sull’impatto ambientale delle filiere produttive e, purtroppo, mancanti di tutele dei diritti minimi dei lavoratori.
Questo fenomeno ha favorito la creazione di nuove tendenze e di nuove collezioni in tempi sempre più brevi, stimolando la domanda e l’acquisto di abbigliamento da parte dei consumatori, ma anche aumentando gli sprechi e l’impatto sia sociale che ambientale.
Il risultato? Secondo alcune stime, l’industria tessile sarebbe responsabile di circa il 10% delle emissioni globali di carbonio, più di quelle del settore aeronautico e del commercio marino messi assieme, e di circa il 20% dell’inquinamento globale di acqua, a causa delle sostanze chimiche che vengono scaricate nei corsi d’acqua.
Inoltre, ogni anno circa mezzo milione di tonnellate di microfibre finiscono in mare, coprendo circa il 35% di tutte le microplastiche primarie rilasciate nell’ambiente. E ancora, ogni anno vengono prodotti circa 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, di cui solo una piccola parte viene riciclata o riutilizzata.
Potremmo andare avanti poiché il numero di dati a disposizione sull’inquinamento tessile è tristemente alto e sempre più allarmante.
Una filiera produttiva dal costo ambientale incalcolabile
Ad oggi l’industria tessile si regge su un modello economico lineare, estraneo quindi a pratiche come il riciclo e il riutilizzo e caratterizzato dalla produzione di grandi quantità di rifiuti.
Ironicamente invece, l’inquinamento tessile è un fenomeno completamente circolare, i cui scarti attraversano tutte le fasi della filiera ma invece di essere smaltiti si reinseriscono nelle nostre vite con gravissimi danni sull’ambiente e sulla salute umana. Ma entriamo nel dettaglio.
La produzione tessile si può suddividere in quattro fasi principali: la coltivazione o l’estrazione delle fibre, la trasformazione delle fibre in filati e tessuti, la tintura e la finitura dei tessuti, e la confezione e la distribuzione dei capi.
Ogni fase richiede l’uso di risorse naturali, come acqua, energia e materie prime, e produce rifiuti e inquinanti.
- La coltivazione o l’estrazione delle fibre: questa fase consiste nell’ottenere le fibre naturali, come il cotone, la lana, la seta, il lino, o le fibre sintetiche, come il poliestere, il nylon, l’acrilico. Le fibre naturali derivano da piante o animali, ma comunque richiedono molta acqua e terreno per la loro coltivazione o allevamento, oltre che pesticidi, fertilizzanti e antibiotici. Le fibre sintetiche invece, derivano dal petrolio o da altre materie plastiche, e richiedono molta energia e sostanze chimiche per la loro produzione, oltre a risultare intrinsecamente più inquinanti. Si stima che per produrre un chilo di cotone siano necessari circa 10.000 litri di acqua, mentre per produrre un chilo di poliestere siano necessari circa 70 litri di acqua.
- La trasformazione delle fibre in filati e tessuti: in questa fase ci si occupa della trasformazione delle fibre in fili, tramite processi di cardatura, pettinatura, filatura, e poi in tessuti, tramite processi di orditura, tessitura, maglieria. Questa fase richiede molta energia elettrica per alimentare le macchine e i processi, e produce molti rifiuti solidi, come scarti di fibre, filati e tessuti. Per quanto riguarda i consumi, è stimato che l’industria tessile utilizzi circa il 2% dell’energia elettrica globale, e produca circa il 15% dei rifiuti solidi industriali.
- La tintura e la finitura dei tessuti: giunti a questo punto della filiera si devono conferire colore e caratteristiche ai tessuti, tramite processi di tintura, stampa, sbiancamento, mercerizzazione, sanforizzazione, resinatura, impermeabilizzazione. Anche qui, le richieste di risorse sono molto ingenti e contribuiscono in larga parte all’inquinamento tessile. In particolare, vengono impiegate molta acqua e sostanze chimiche per i vari trattamenti, e si producono acque reflue e gas inquinanti. Si stima che il lavaggio di capi sintetici rilasci ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari. Per esempio, con un unico carico di bucato di abbigliamento in poliestere che può comportare il rilascio di 700.000 fibre di microplastica che possono finire nella catena alimentare.
- La confezione e la distribuzione dei capi: siamo giunti alla fine della filiera, dove ci si occupa delle operazioni di taglio, cucito, assemblaggio e imballaggio dei capi, per poi trasportarli e distribuirli nei vari mercati. Questa fase produce prevalentemente emissioni di gas serra a causa dei mezzi di trasporto utilizzati.
Un viaggio di andata e ritorno per le microplastiche
Quello che emerge dall’analisi di queste 4 fasi, oltre ai già noti danni all’ecosistema, è un rischio per la salute umana apparentemente nascosto:
L’impiego di composti chimici di cui i tessuti vengono impregnati durante il processo di produzione ha portato il Rapex (Sistema comunitario di informazione rapida sui prodotti non alimentari), ad inserire i capi di vestiario al primo posto nella classifiche delle sostanze a rischio per i consumatori.
Uno studio commissionato dall’UE intitolato “Chemical substances in textile products and allergic reactions” ha poi evidenziato come il 7-8% delle patologie dermatologiche siano dovute proprio ai vestiti di uso quotidiano.
Scavando più a fondo poi, ci accorgiamo di come anche un semplice lavaggio in casa di prodotti sintetici rilasci una quantità elevatissima di microplastiche in mare (ogni anno vengano scaricate mezzo milione di tonnellate di microfibre) che poi vanno a finire nei fanghi di depurazione usati per concimare la terra e, tramite bioaccumulo, direttamente nella fauna marina.
Ed ecco che si innesca un processo che potremmo chiamare “inquinamento circolare”, nel quale gli scarti della filiera tessile tornano direttamente al mittente, finendo nel nostro cibo e quindi nel nostro organismo. Non si butta via niente, giusto?
Le nostre armi contro l’inquinamento tessile
Cosa possiamo fare di fronte a un problema così radicato nelle nostre abitudini quotidiane come l’inquinamento tessile? La parola d’ordine è “cooperazione”. Lo abbiamo già detto all’inizio di questo articolo, siamo tutti responsabili, dal consumatore al produttore e bisogna agire insieme.
Un primo spiraglio di luce lo si vede dall’iniziativa dell’Unione Europea di promuovere l’economia circolare, con un piano studiato ad hoc per l’industria tessile.
Si comincia dalla lotta al fast fashion, fino allo scoraggiamento all’uso di sostanze chimiche pericolose, fino ad arrivare ad una migliore gestione dei flussi di esportazione dei rifiuti tessili.
Da parte dell’industria stessa invece, già da qualche anno sono in atto pratiche per la lotta all’inquinamento tessile, con tentativi virtuosi da parte di alcune realtà come Patagonia, Reformation, Veja, Stella McCartney e Ecoalf.
Questi marchi già adottano una filosofia orientata alla moda sostenibile, attraverso l’uso di materiali naturali, biodegradabili o riciclati, la riduzione degli sprechi e delle emissioni, il rispetto dei diritti dei lavoratori e degli animali, la promozione di una cultura del riutilizzo e del riuso.
Per finire, lo sviluppo tecnologico può essere un nostro alleato nella riduzione dell’inquinamento tessile. Esistono infatti nuove tecniche per il trattamento delle acque reflue: il bioassorbimento e la biodegradazione.
Il bioassorbimento consiste nell’utilizzare una biomassa organica, come alghe, batteri o piante, per assorbire gli inquinanti da un liquido. Tuttavia, questo metodo non elimina l’agente inquinante, ma lo sposta nella biomassa, che deve essere poi smaltita in modo adeguato.
La biodegradazione, invece, consiste nel distruggere l’inquinante tramite il metabolismo di organismi viventi, come batteri o funghi, e trasformarlo in sostanze innocue o addirittura utili.
Tirando le somme, la riduzione dell’inquinamento tessile sarà sicuramente una delle più grandi sfide dei prossimi anni, ma le armi a nostra disposizione sono già molte e, la più potente e accessibile, è senz’altro la sensibilizzazione.