“Volontà chiaramente esplicitata di partecipare a cause in ambito sociale, oltre che di assumersi precise responsabilità in merito al raggiungimento di quello che viene considerato bene comune”.
È così che, nel 2018, nel loro libro considerato il più importante sul tema, Philip Kotler e Christian Sarkar definiscono il brand activism.
Dunque, si tratta di un’evoluzione strategica delle aziende, che fa riferimento al coinvolgimento di queste verso una o più cause di rilevanza sociale, economica o politica, dimostrato mediante iniziative, campagne di comunicazione e progetti pensati ad hoc.
Nell’ultimo periodo, e ancora di più a seguito dell’emergenza sanitaria che ci ha colpiti, sembrerebbe che fare del bene sia diventato un grande vantaggio competitivo per le aziende.
Laddove, infatti, il positioning del brand marketing risulta essere insufficiente per la promozione di un marchio, il brand activism assume un ruolo di grande rilevanza per il business, poiché ora più che mai, sono proprio i consumatori a chiedere alle aziende di comportarsi responsabilmente.
Ma se è vero che operazioni di brand activism possono far acquistare punti nella cultura popolare, aumentare le quote di mercato e migliorare la reputazione, prendere una posizione netta comporta sempre un certo rischio.
Il successo di un’operazione di brand activism? Non può prescindere dall’ottima conoscenza dei propri utenti e della conversione dello scopo del brand in un’azione concreta e tangibile.
Chi ha coniato il termine
Wikipedia, l’enciclopedia online numero uno nel web, definisce l’attivismo come “un’attività finalizzata a produrre un cambiamento sociale o politico, spesso intesa anche come sinonimo di protesta o dissenso”.
E proprio da qui sono partiti Philip Kotler, massimo esponente mondiale del management e padre del marketing moderno, e Christian Sakar, fondatore della startup milionaria Double Loop Marketing LLC e luminare nell’uso dei media online e dell’intelligenza artificiale, quando per rispondere agli interrogativi del marketing e della gestione d’impresa, hanno coniato il termine “Brand activism”.
Lo studio di Kotler e Sarkar definisce un nuovo modello di fare impresa e illustra un profilo diverso dei clienti di oggi, da non intendere più come semplici consumatori, ma come delle persone che ogni giorno sono immerse nei pensieri, nei loro problemi e che agiscono guidate dai propri ideali.
Questo nuovo modo di fare marketing si basa su valori etici e sociali: alcune aziende, infatti, hanno iniziato a comprendere che la sola comunicazione del marchio non riesce a trasmettere informazioni più profonde su di esse, quelle che catturano l’interesse dei consumatori, quali le passioni e gli obiettivi che orientano le loro scelte.
Un brand, quindi, può dirsi “attivo” quando rende chiaro lo scopo e le sue visioni sul futuro ai propri clienti. Ma il Brand activism è ancora qualcosa in più: in una società dove i governi collezionano fallimenti anziché risolvere i problemi urgenti che affliggono il mondo, il business può diventare la principale istituzione in grado di contribuire ad un miglioramento della vita delle persone.
Ecco allora che i dirigenti aziendali diventano una guida sociale, oltre che economica, che si assume la responsabilità sociale per far progredire il Bene comune.
Corporate social responsibility e brand activism
Da sempre le aziende hanno obblighi morali, oltre che legali, verso la società in cui operano, ma, negli ultimi anni, si è posta ancora più enfasi sulla dimensione etica e solidaristica dell’impresa.
Affermare che la Responsabilità sociale d’impresa (RSI) rappresenti una novità di questa nostra fase storica, quindi, non è del tutto corretto; piuttosto, è vero che nel corso del tempo sia mutata l’interpretazione di questa, cioè del motivo per cui un’azienda può dirsi responsabile.
L’origine del concetto in esame viene attribuita a Bowen, padre della RSI e autore del lavoro “Social responsibility of businessman” del 1953. Nel testo, l’autore fornisce una prima definizione di responsabilità sociale d’impresa, affermando che “la RSI fa riferimento agli obblighi degli uomini di affari di perseguire quelle politiche, prendere quelle decisioni, o seguire quelle linee di azioni auspicabili in termini di obiettivi e valori della nostra società”.
Col tempo, il numero di contributi teorici sul tema è cresciuto ed è proprio in questo contesto che si insedia il brand activism, come una sorta di evoluzione naturale della RSI.
Distinguere, nella pratica, le azioni di brand activism dalle occasioni in cui le aziende mettono in campo il loro impegno sociale in campagne contro la lotta alla plastica o all’estinzione dei fenicotteri, sfruttando i mezzi del marketing campaign, sarebbe praticamente impossibile.
L’attivismo dei brand risulta essere anche strettamente legato all’issue management, ovvero alla capacità di un marchio o di un’azienda di cogliere temi caldi di una particolare comunità (meglio ancora se corrispondente al proprio target), sviluppando progetti orientati alla risoluzione di quella criticità.
Se prima l’impegno delle aziende si identificava come corporate-driven o anche marketing-driven, oggi ha senso parlare di azioni society-driven o values-driven.
Corporate diplomacy e brand activism
Di fronte alle sfide geopolitiche, le crisi economiche e reputazionali e i cambiamenti imposti dalla globalizzazione, i brand assumono sempre di più un ruolo nuovo, chiamati a confrontarsi costantemente con conflitti sociali, interessi, istituzioni e trasformazioni radicali nei modi di vivere.
L’azienda si configura come un sistema aperto, che dialoga con soggetti diversi tra loro: decisori politici, attivisti e altre aziende, sono alcuni dei soggetti che popolano questa complessa rete di relazioni basate su equilibri precari.
Ecco perché è sempre più necessario imparare e sviluppare una vera e propria diplomazia di brand, che permetta all’azienda di prendere una posizione nel modo più oculato possibile.
Una figura ancora poco conosciuta, diversa da quella del Direttore Affari istituzionali, è quella del diplomatico aziendale, che aiuta l’organizzazione a raggiungere i propri obiettivi di business, ad aumentare il proprio valore di mercato e sociale, a consolidare la propria posizione nei settori di interesse.
Per trasformarsi in bran activism, dunque, la corporate diplomacy ha bisogno di comprendere le cause che stanno più a cuore (o che più dividono) la comunità di riferimento, stilando un’agenda di priorità tra queste, anche sulla base della rilevanza percepita.
Brand activism regressivo
Brand activism, sebbene associato al concetto di responsabilità sociale d’impresa, non sempre è sinonimo di azioni volte a perseguire il Bene Comune.
Esistono, infatti, diverse tipologie di attivismo, che si distinguono per direzione e area di interesse: una di queste è il brand activism regressivo.
Tipico delle aziende che commercializzano prodotti considerati controversi, l’attivismo regressivo è il modo con cui si vantano benefici non confermati dei propri prodotti o servizi, minimizzandone altresì l’impatto negativo.
Oggi la tendenza ad abbracciare questo filone dell’attivismo è sempre meno frequente, ma in passato tra i settori che più di tutti hanno scelto questa modalità di veicolare i propri messaggi, si sono distinti quelli del tabacco, del gioco d’azzardo e dell’industria pesante.
In particolare, le compagnie di tabacco per decenni hanno negato, nelle loro pubblicità, che il tabacco danneggiasse la salute, anche laddove le ricerche confermassero l’esatto contrario, facendo pressioni sui politici per politiche regressive.
Brand activism progressivo
È in questi ultimi anni che ha certamente più senso parlare dell’evoluzione dell’attivismo progressivo. Con questa espressione, contrariamente a prima, si indicano le azioni di quelle aziende che mirano a scopi più ampi della mera ricerca del profitto.
In questo caso, infatti, la tendenza è quella di compiere delle scelte orientate al perseguimento del Bene Comune, attraverso piani strutturati di responsabilità sociale, nella convinzione che il modo migliore per massimizzare i profitti a lungo termine sia proprio quello di non renderli l’obiettivo principale.
È necessario, dunque, che i brand assumano una posizione definita e trasparente riguardo a temi sociali o verso le emergenze che colpiscono il pianeta: i consumatori, oggi, hanno bisogno di avere chiaro da che parte stanno le aziende, per scegliere liberamente e consapevolmente se supportarle o meno.
10 esempi concreti di brand activism
L’esposizione ai problemi sociali, economici, ambientali o politici comporta inevitabilmente una maggiore popolarità per l’azienda.
È un dato di fatto che sposare determinate cause aiuti in modo considerevole l’umanizzazione del brand che, schierandosi e trasformando le proprie idee in azioni, si guadagna anche una larga fetta di pubblico. Ma attenzione: bisogna fare scelte oculate, perché può succedere che il brand activism, al contrario, possa rivelarsi come un vero e proprio rischio, se non è allineato con i valori dei propri clienti.
Lyft. Quando ci fu lo sciopero generale dei taxisti contro il decreto antimmigrazione di Donald Trump, Lyft era ancora un’azienda di trasporti privati quasi sconosciuta, con un’applicazione poco scaricata.
Per approfittare delle condizioni favorevoli dovute allo sciopero, Uber iniziò proporre sul mercato prezzi stracciatissimi per le corse. Lo stesso giorno, l’amministratore di Lyft, Logan Green, dichiarò pubblicamente di donare un milione di dollari all’American Civil Liberties Union. Quest’azione portò, per la prima volta, un aumento dei download di Lyft su quelli di Uber.
Patagonia. Un modello di attivismo progressivo, questo brand ha posto tutto il suo impegno nella tutela dell’ambiente e della giustizia sociale, attraverso alcune importanti iniziative di sensibilizzazione e non solo: The Refuge, un cortometraggio su uno degli ultimi luoghi selvaggi d’America e sulle persone che lo chiamano casa; $ 10 milioni per il pianeta, con cui, il giorno del Black Friday del 2016, ha donato il 100% delle vendite alle organizzazioni sociali che si impegnano per un cambiamento positivo del pianeta; commercio equo e solidale, con cui Patagonia paga un premio per ogni articolo certificato del commercio equo e solidale che porta la sua etichetta; agricoltura biologica, un progetto per integrare le pratiche organiche rigenerative nella sua catena di approvvigionamento e collaborare con altre società, per promuovere questa iniziativa.
Lush. Per contrastare il Climate Change, il 23 settembre scorso, nel giorno in cui le Nazioni Unite si riunivano per definire le azioni per il clima, Lush Cosmetics, insieme a Ben e Jerry’s e Patagonia, ha aderito a favore degli scioperi promossi da Greta Thunberg, scegliendo di chiudere i propri negozi al dettaglio, per sensibilizzare la propria clientela al problema.
Nike. La società di abbigliamento sportivo si è distinta ancora una volta per aver selezionato Colin Kaepernick, un giocatore di football americano emarginato e attivista per i diritti civili, come volto della sua campagna per il 30° anniversario della Nike “Just Do It”. Nel 2016 Kaepernick si era rifiutato di sostenere l’inno, in segno di protesta contro la violenza della polizia nei confronti degli afro-americani. Una scelta che ha diviso il Paese e scatenato l’ira di Donald Trump, oltre ad avergli procurato l’uscita dalla NFL. Nonostante le critiche e le divisioni che questa scelta ha provocato, un anno dopo la società ha registrato un aumento delle vendite del 31%, grazie al suo coraggio di prendere una posizione.
Unilever. Con il suo programma Unilever Sustainable Living Plan, lanciato nel 2010, l’azienda continua a perseguire il suo più grande obiettivo: rendere la sostenibilità una consuetudine. Ogni giorno, infatti, Unilever cerca di cambiare il modo di fare business, riducendo rischi e costi e aumentando la fiducia degli interlocutori.
StellaMcCartney. Il brand della McCartney può definirsi come il primo esempio di lusso che abbia una coscienza, poiché sin dal lancio del suo marchio omonimo nel 2001 ha abolito l’utilizzo di pelle, pellicce e PVC nelle sue collezioni. Una presa di posizione dettata da valori importanti, ampiamente condivisi dai suoi clienti molto attratti da questo tipo di lusso sostenibile.
TOMS. Blake Mycoskie è il fondatore dell’azienda di calzature nata nel 2006 con una missione: migliorare la vita delle persone. Il modo in cui lo fa è a dir poco eccezionale: per ogni paio di scarpe venduto, TOMS si impegna a donarne uno ad una persona in difficoltà. Dal 2006 sono più di 60 milioni le scarpe che l’azienda ha distribuito ai bambini bisognosi e, nel 2011, questo modello “one for one” è stato esteso al marchio di occhiali TOMS Eyewear, che in tal modo è riuscito a correggere la vista a più di 400.000 persone.
Giovanni Rana. L’illuminato imprenditore e presidente dell’omonimo pastificio nel veronese si fa portavoce di un orgoglio tutto italiano. A causa dell’emergenza sanitaria, infatti, Giovanni Rana ha deciso di varare un piano straordinario di aumenti salariali per un totale di 2 milioni di euro. In sostanza, è stato stabilito un aumento del 25% dello stipendio ogni giorno come riconoscimento speciale a tutti i suoi dipendenti che, nonostante il momento difficile, hanno continuato a garantire l’approvvigionamento alimentare.
Lego e Audi. Il famoso brand dei mattoncini colorati e uno dei più grandi colossi delle quattro ruote si sono uniti per rendere omaggio a Michele Mouton e alla sua Audi Quattro S1. L’edizione limitata #TheDriverIsHer è dedicata alla pilota francese, in quanto unica donna ad aver vinto nel World Rally Championship del 1981. L’obiettivo è quello di dare ispirazione ad una intera nuova generazione di donne pilota e, allo stesso tempo, di rivendicare il ruolo femminile nel mondo dei motori, tendenzialmente maschile.
Pampers. La nota azienda di pannolini ha lanciato uno spot che vede come protagonisti lo sceneggiatore Dustin Lance Black e il tuffatore Tom Daley, che si sono promessi amore eterno nel 2017 e oggi sono genitori di un bambino, dopo aver fatto ricorso all’utero in affitto. Un passo importante quello del brand che, da sempre vicino alle famiglie, ora vuole dar voce alle famiglie dello stesso genere, per far capire che anche loro condividono gli stessi problemi e preoccupazioni.
Testi per approfondire
Oggi tema di grande rilevanza, il brand activism rappresenta il nuovo modo per posizionare la propria azienda, mediante il perseguimento di obiettivi sociali e ambientali capaci di coinvolgere emotivamente i consumatori.
Ecco perché è importante restare sempre aggiornati sull’attivismo di marchio e conoscerlo più da vicino. Di seguito, quindi, alcuni testi per approfondire l’argomento:
- Brand activism: from purpose to action, di Christian Sarkar e Philip Kotler
- Storie che incantano. Il lato narrativo dei brand, di Andrea Fontana
- The hero and the outlaw, di Margaret Mark e Carol S. Pearson
- Brand activism, Inc.: the rise o corporate influence, di Christian Du Toit
- Becoming brands: celebrity, activism and politics, di Jackie Raphael e Celia Lam